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Nei panni di mia moglie

"Nei panni di mia moglie" pubblicato da Editrice Nuovi Autori

Imago mortis - un'esca per la regina nera

"IMMAGO MORTIS- un'esca per la regina nera" pubblicato da Il Filo


L'etica e la guerra

di Andrea Saviano
4° a "Il racconto nel cassetto" 2010


Se

Se riesci a conservare il controllo quando tutti
intorno a te lo perdono e te ne fanno una colpa;
se riesci ad aver fiducia in te quando tutti
ne dubitano, ma anche a tener conto del dubbio;
se riesci ad aspettare e non stancarti di aspettare,
o se mentono a tuo riguardo, a non ricambiare in menzogne,
o se ti odiano, a non lasciarti prendere dall'odio,
e tuttavia a non sembrare troppo buono e a non parlare troppo saggio;

Se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;
se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;
se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina
e trattare allo stesso modo quei due impostori;
se riesci a sopportare di udire la verità che hai detto
distorta da furfanti per ingannare gli sciocchi
o a contemplare le cose cui hai dedicato la vita, infrante,
e piegarti a ricostruirle con strumenti logori;

Se riesci a fare un mucchio di tutte le tue vincite
e rischiarle in un colpo solo a testa e croce,
e perdere e ricominciare di nuovo dal principio
e non dire una parola sulla perdita;
se riesci a costringere cuore, tendini e nervi
a servire al tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
e a tener duro quando in te non resta altro
tranne la Volontà che dice loro: "Tieni duro!".

Se riesci a parlare con la folla e a conservare la tua virtù,
e a camminare con i Re senza perdere il contatto con la gente,
se non riesce a ferirti il nemico né l'amico più caro,
se tutti contano per te, ma nessuno troppo;
se riesci a occupare il minuto inesorabile
dando valore a ogni minuto che passa,
tua è la Terra e tutto ciò che è in essa,

e - quel che è di più - sei un Uomo, figlio mio!

Rudyard Kipling


Cara, molti giorni sono trascorsi da quando mi hanno trascinato via da casa e solo ora, dopo il processo, m'è concesso di scriverti per rassicurarti sul mio stato di salute. Non ti crucciare per me. Sappi che qui non sono tanto le sofferenze fisiche a rendermi dura e insopportabile la prigionia, né la certezza della condanna alla pena capitale che mi sarà comminata. Piuttosto mi affliggono l'arbitrio e la malvagità con cui queste pene vengono decretate da persone d'indubbia indole crudele. Nonché il fatto che tali punizioni siano poi applicate essenzialmente da individui indifferenti a tutto ciò che accade intorno a loro. Non credere, amore mio, che io non abbia amato te o i nostri figli, ma è proprio per questo amore, per il desiderio che possiate vivere in un mondo migliore di quello in cui io sono vissuto che ho agito. Dopotutto, tu lo sai, come io abbia sempre sperato che il nostro potesse diventare un paese in cui fosse il senso della giustizia a muovere le persone e non il loro tornaconto personale.

Quella che tenevo tra le mani era una lettera di papà riemersa da un passato lontano che (nonostante gli anni) non avevo dimenticato. Infatti, ci sono cose così terribili che le persone imparano ad accettare ma che il tempo non riesce a cancellare.

Per questo motivo, nonostante questa storia cominci in un'epoca ormai lontana, il ricordo che tuttora conservo è chiaro e indelebile.

Nata nel periodo felice della democrazia, avevo solo tre anni quando alla televisione stavano annunciando l'elezione a larghissima maggioranza del nuovo Presidente della Repubblica.

Ricordo che quel giorno stavo tentando di convincere mia madre che non ero più una bambina piccola e che, per questo motivo, non dovevo più mangiare la minestra di verdure. Invece, solo adesso che sono una donna m'accorgo che, per certi versi, avrei voluto rimanere fanciulla in eterno, così da vivere per sempre in quella breve età dell'innocenza che permette di modificare la realtà con il tipico velo dell'illusione che ricopre gli occhi di ogni bambino.

A quei tempi, cioè quelli dell'elezione plebiscitaria del nuovo Capo di Stato, vivevamo in pace con tutti. Solo le favole che i genitori raccontavano ai propri figli per farli addormentare parlavano della cattiveria umana, raffigurandola a volte sotto forma di un orco altre volte con l'aspetto di un lupo cattivo.

Fu circa cinque anni più tardi, con la rielezione plebiscitaria del Presidente che entrammo in guerra contro qualcuno dei paesi confinanti e da quel giorno papà, sussurrando, cominciò a parlare di chi ci governava con gli stessi termini che utilizzava per descrivere le creature malvagie delle favole.

Fatto sta, che crebbi in un clima di guerra perenne.

Rammento che spesso coglievo mio padre con degli amici mentre discutevano tra loro del Presidente e delle folli guerre in cui costui ci aveva trascinato e tutte le volte che lo trovavo intento in questi incontri e quei discorsi, a casa c'era sempre un'aria cupa e la stanza in cui lui incontrava i suoi sostenitori era sempre immersa nella semioscurità, cosicché si potevano riconoscere le voci ma non i volti dei partecipanti.

Ogni volta che queste riunioni avvenivano, sul volto di mamma si dipingeva una maschera di terrore.

Lei prima preparava la stanza e poi, mentre alla luce di una candela se n'andava in silenzio in cucina, la scorgevo intenta a piangere, badando bene che nessuno dei convenuti la potesse vedere o sentire.

In quegli stessi anni a scuola ci ricordavano quasi quotidianamente che vivevamo in una Repubblica Popolare sotto il “buon governo” di un Presidente democraticamente eletto in maniera quasi plebiscitaria. Il quale, per il bene del popolo, aveva reso lo Stato da laico a religioso in modo da salvaguardare la morale da eventuali pericolose deviazioni verso la depravazione. Ciò nonostante, quando mio padre parlava del Capo di Stato con i suoi amici aveva sempre un'espressione triste e preoccupata, mentre gli altri convenuti sussurravano spesso (seppure quasi impercettibilmente) la parola “tiranno”.

Io, ancora troppo giovane, non sapevo bene cosa fosse una dittatura. Però, in base ai discorsi che avevo sentito a casa, avevo la sensazione che non si trattasse di qualcosa di buono.

Ora, nonostante costui apparisse in televisione sempre sorridente e con in braccio dei bambini, papà ne parlava adoperando gli stessi termini che utilizzava per descrivere il lupo cattivo mentre era intento a ingannare, da dietro la porta di casa, gli ingenui capretti provvisoriamente privi della loro madre.

Al contrario zio, cioè il fratello di mia madre, parlava del Presidente in una maniera differente, adoperando espressioni molto simili a quelle utilizzate a scuola. Lui descriveva il nostro Capo di Stato come un salvatore della Patria: un eroe. Insomma, lui e gli insegnanti quando parlavano del Presidente mi facevano tornare in mente quando nelle favole si accennava al principe che sconfiggeva i mostri o alla fata che miracolosamente risolveva tutti i problemi con un semplice tocco della sua bacchetta magica.

Tuttavia, anche se mio zio, la televisione e i professori parlavano bene di costui, io ero convinta che in realtà si trattasse di un uomo cattivo, perché così diceva mio padre e a me ciò bastava.

Gli anni della pre-adolescenza li ricordo come molto confusi, perché parecchie erano le cose che all'epoca non capivo. Tra queste il fatto che zio, pur essendo stato riformato alla visita di leva, indossasse sempre una divisa da militare. So che lui si definiva: un “guardiano della rivoluzione”, ciò nonostante papà lo etichettava con il termine: “squadrista”. Mamma, invece, su tutto ciò pubblicamente taceva, tuttavia in privato si doleva del fatto che marito e fratello non andassero d'accordo.

Un episodio curioso che rammento di quel periodo è come tutti coloro che frequentavano casa nostra sussurrassero e bisbigliassero per esprimere la propria contrarietà nei confronti del governo, quasi non fosse concesso loro di esprimere quei concetti liberamente.

Al contrario, mio padre manifestava le proprie idee chiaramente asserendo senza mezzi termini che chi ci governava era: un folle pronto a dichiarare guerra al mondo intero; uno psicopatico in preda a paranoie razziali e razziste; un bugiardo che si nascondeva dietro a una visione ortodossa e oscurantista della religione; un pazzo capace di devolvere l'intero bilancio dello Stato nella ricerca di armi di distruzione di massa piuttosto che investirlo in infrastrutture, scuole o ospedali; un matto sempre pronto ad accusare la comunità internazionale d'affamare con ingiuste sanzioni il popolo, ma altrettanto pronto a reperire (da un paese ricco, com'era il nostro, di risorse naturali) mezzi economici per finanziare i propri monumenti o le sue molteplici principesche residenze. In quegli anni, nonostante il popolo mormorasse le medesime opinioni di papà, per zio e molti altri il Capo di Stato era un santo.

Un uomo illuminato da Dio che aveva spezzato le catene che imprigionavano la Nazione sotto il giogo occulto dell'occidente e del potere sionista, liberandoci così dalla minaccia plutocratica e capitalista. Tutte parole il cui significato ancora adesso io non comprendo bene.

Zio aggiungeva anche che nel Paese tutto ora funzionava alla perfezione (prova ne erano i treni finalmente in orario) e che la nostra Patria adesso non solo era rispettata ma anche temuta. Persino le cosiddette superpotenze, anche se a voce alta ci minacciavano, in realtà se la facevano sotto. Infatti, era questo il motivo per cui non attaccavano le basi dove si stavano sviluppando le nuove terribili armi. Investimenti purtroppo necessari per assicurare al Paese uno strumento adeguato d'autodifesa.

Insomma, per taluni il nostro Presidente era un eroe da amare e acclamare, poiché aveva restituito una spina dorsale alla Nazione, riuscendo persino nell'intento di riunire sotto un'unica bandiera le varie etnie che la componevano e che da decenni erano in conflitto tra loro. Poco importava il fatto che per raggiungere l'obiettivo a volte il mezzo utilizzato era stato l'impiego interno delle terribili armi che dovevano servire all'autodifesa del Paese. Anzi, combattere i nemici interni dello Stato era un ineccepibile esempio di pacificazione e di uso delle armi solo per la tutela dell'integrità del territorio nazionale.

Mamma, interrogata su tutto ciò, taceva o piangeva. Lei, credo, singhiozzasse per due suoi fratelli morti in lotte che papà aveva definito assurde e, soprattutto, per un mio fratellino che era morto a suo avviso per la carenza di cibo e medicine. Papà, invece, di ciò incolpava chi ci governava. Zio, al contrario, era convinto che quella tragedia fosse avvenuta a causa delle sanzioni che ci avevano ingiustamente imposto le altre nazioni.

Adesso, so solo con certezza che quel fratello era morto per una malattia banale, non solo facilmente curabile, ma che non avrebbe nemmeno avuto se non ci fossero stati così tanti problemi nell'approvvigionamento alimentare. Fatto sta che in quegli anni ci si nutriva essenzialmente di una specie di focaccia molle, un insieme di polvere di cereali fatta rapprendere nell'acqua che poi veniva abbrustolita sopra le braci.

Si mangiava sempre quello, tutti i giorni. Solo per le ricorrenze e le festività mamma ci aggiungeva dei pezzi di carne e noi bambini eravamo così contenti che saltavamo intorno alla pentola cantando con gioia.

Ripensando a quel periodo, ricordo che durante la mia infanzia eravamo considerati dei benestanti. All'epoca papà insegnava Diritto Costituzionale all'Università. Invece, dopo la guerra contro i Sudditi e il conflitto contro i Nordiani, c'eravamo scoperti decisamente poveri. Infatti, in conseguenza dei numerosi conflitti tutti gli atenei erano stati chiusi, giacché alla Patria non servivano più penne e calamai ma milioni di moschetti e baionette.

Eppure, nonostante si vivesse una situazione d'indigenza che accumunava in un'unica e umile casta tutti i ceti del Paese, ricordo che c'era tanta gioia nella nostra casa e nelle altrui. Vivevamo facendoci bastare quelle poche cose semplici. Papà ci faceva sempre giocare e cantare. Solo mamma a volte s'isolava, nascondendosi. Lì, da sola, pensando che nessuno la potesse vedere, cominciava a piangere, non a causa del nostro stato di povertà ma per il timore che potesse accadere qualcosa di brutto a papà.

Allora non capivo cosa stesse accadendo, ma adesso che crescendo il velo dell'innocenza è stato strappato dai miei occhi, comprendo certi perché e le sottili sfumature che si possono celare dietro i gesti o le parole di un adulto, anche i più banali.

Un fatto che rammento come strano è che, seppure da anni papà non insegnasse più all'università, in parecchi continuavano a rivolgersi a lui con la qualifica di professore. Tutti, a eccezione di zio, pareva lo apprezzassero come persona e per questo gli portavano rispetto nonostante lo stato di evidente miseria in cui in quegli anni versavamo.

Molte persone dicevano di lui che parlava bene e taluni bisbigliavano tra loro che papà asseriva cose vere e giuste. Insomma, tutti coloro che frequentavano casa nostra parevano convinti sul fatto che lui avesse le idee chiare su chi ci governava e su cosa si sarebbe dovuto fare, anche se nessuno s'azzardava a dire ciò a voce alta nemmeno tra le nostre pareti domestiche. Ognuno di loro, semplicemente, si limitava ad annuire mentre papà parlava, sussurrando apprezzamenti uno nell'orecchio dell'altro.

Essendo troppo piccola per parlare in pubblico, io mi limitavo a giudicare gli adulti come dei tipi strani, quasi fossero degli esseri che provenivano da un altro pianeta. Così complicati e imperscrutabili da sembrarmi impossibile l'idea che un giorno anch'io sarei diventata come loro.

Dall'altra parte della barricata c'era zio, che non solo non condivideva le idee di mio padre ma lo descriveva come un concreto pericolo per la Nazione, affetto com'era dal virus idealista della perfetta democrazia. Un morbo a suo parere molto pericoloso perché avrebbe potuto diffondersi peggio di una pandemia. Un contagio che avrebbe infettato persino i veri patrioti rendendoli dei disadattati da rieducare.

Ricordo che un giorno lo colsi mentre, quasi urlando in faccia a papà, affermava: « La democrazia è un'illusione. È il sistema inventato dai capitalisti per mettere sugli scanni del potere i “loro” uomini. Guardati intorno! Apri gli occhi!! Ammetti la follia dei popoli che credono nella democrazia!!! L'uomo è fondamentalmente egoista e anarchico: un gregge allo sbando. Delle pecore che, senza il minimo vincastro in grado di tenerle unite, sono destinate a disperdersi diventando facili prede dei lupi. Lui è il nostro “buon pastore”. Un essere superiore che Dio, misericordioso, ci ha inviato per vegliare su noi. »

« Baggianate! Tu spiegami allora in cosa consiste la dignità di una persona, » gli rispose pacatamente mio padre. « Chiariscimi che senso abbia uccidere il proprio vicino solo perché veste differentemente da noi o non crede nel Dio in cui noi crediamo. Dimmi che rispettabilità c'è nel tutelare il delinquente che veste e parla alla nostra maniera, solo perché ha assassinato un brav'uomo che la pensava differentemente da noi o era di un'etnia che noi detestiamo. Spiegami perché dovrebbe essere più meritevole colui che costringe in servitù di coloro che, invece, sono costretti a servire. »

In quel dialogo surreale che a causa dei sottointesi a me pareva tra sordi, la replica di zio era stata: « Tu lascia stare i miei fratelli. Sono degli eroi! Martiri dell'ideale. »

« Smettetela tu e tutta la tua cricca di dire che sono morti in battaglia! Ammazzare gente inerme e innocente facendosi esplodere in mezzo a loro non è guerra. Persino i conflitti, per quanto sporchi, hanno un minimo di etica. Ad esempio: indossare una divisa per farsi riconoscere come il nemico. Voi siete solo lupi che si mascherano da agnelli per sbranare il gregge. »

Quella volta, impaurita da loro due che gridavano a voce alta, corsi in cucina da mamma, chiedendole se gli zii fossero morti da eroi o facendo le cose cattive che papà affermava. A quella domanda lei rispose singhiozzando: « La verità, figlia mia, è come il riflesso che vedi su uno specchio. Cambia a seconda della posizione da cui lo guardi. »

Qualche settimana più tardi, un brutto giorno, uomini vestiti come lo zio entrarono in casa urlando come dei matti. Non comprendevo perché si comportavano così e cosa ripetessero. Più gridavano e meno si capiva ciò che tentavano di dire. Nonostante ciò, papà li accolse con gentilezza, dicendo loro: « Non c'è bisogno di strepitare così. State solo spaventando mia moglie e mia figlia. Non c'è alcun motivo per comportarvi così e minacciare i miei familiari. Vi seguirò ovunque sia necessario andare senza fare resistenza. »

Questo, insieme alla lettera che tenevo in mano, era l'ultimo ricordo che avevo di mio padre in vita.

La sera, quegli stessi uomini tornarono a trovarci. Raccolsero tutti i tomi che componevano la biblioteca di mio padre e li radunarono in un gran cumulo nella piazza di fronte a casa. Lì, ridendo, vi diedero fuoco.

A papà la cosa non sarebbe piaciuta. Lui andava molto fiero d'aver letto ognuno di quei volumi. Mamma, invece, diceva che erano serviti solo a sperperare tutti i nostri averi e che con quelli adesso non ci poteva comprare nemmeno una medicina banale come l'aspirina.

Rammento come fosse oggi il giorno in cui, con un'espressione stranamente cattiva dipinta in faccia, aveva strillato: « Cosa ti hanno dato quei libri? Non sono stati nemmeno in grado di salvare nostro figlio! »

Era strano vederla così dura con papà. Lui, per quanto ne sapevo, non era un medico e quei testi non erano di medicina.

« Perché l'accusi di non essere riuscito a salvare mio fratello? » Domandai ingenuamente io.

Adesso, che i miei occhi vedono in maniera limpida la verità, comprendo che lei con quella frase intendeva il fatto che nessuno volle comprare quei volumi, nonostante fossero costati molto, e che per acquistare le medicine ci volevano soldi, tanti soldi.

Però rammento che rimasi colpita da come lui, sereno in volto, anche quella volta aveva saputo mantenere la calma.

Papà non perdeva mai le staffe.

Lui aveva lasciato sfogare mamma. Poi l'aveva abbracciata sussurrandole all'orecchio, mentre la baciava: « Quei libri mi hanno dato la dignità, amore mio. Una vita senza dignità a lungo andare diventa intollerabile. È peggio di una vita dietro le sbarre o dietro il filo spinato. Peggio anche della più ingiusta delle punizioni. » Dopodiché, avendomi intravista in fondo alla stanza, era venuto da me, mi aveva preso in braccio e, carezzandomi i capelli, m'aveva recitato una bellissima poesia.

Credo l'avesse scritta un inglese.

Il suono che papà aveva prodotto nel pronunciare il nome dell'autore sapeva d'inglese, ma poteva benissimo essere un americano, un australiano o altro.

Era una lirica piena di se ed era bellissima.

Mi sono spesso riproposta di rintracciare quei versi e il loro autore, ma la vita mi ha sempre posto davanti altre priorità, così la conservo nella memoria con il semplice nome della poesia dei se.

Fu quell'episodio che mi permise di comprendere che papà avrebbe dato la vita pur di mantenere la propria dignità e così fu perché, dopo essere stato trascinato via da quegli uomini in divisa, lui non tornò più.

A portare la notizia dell'esecuzione della pena capitale per impiccagione fu zio, con sé aveva anche la lettera che ora tenevo tra le mie mani.

Mamma a quell'annuncio si sentì mancare. S'aggrappò al fratello nella vana ricerca di un sostegno ma lui l'allontanò, lasciandola cadere riversa sul pavimento in lacrime.

« Ben gli sta, sorella mia. In fin dei conti se l'è cercata. Se solo m'avesse dato ascolto! »

Io ero in fondo alla stanza. Capivo che papà era morto assassinato volontariamente da qualcuno, ma non comprendevo chi avesse mai potuto uccidere un uomo così buono e sensibile com'era mio padre o quale pericolo potesse essere per qualcuno la sua dignità.

« Tu cos'hai da guardare? Fila a letto! » Mi strillò zio in faccia. Anche se faceva il duro, era evidente che pure lui era scosso dalla notizia dell'esecuzione di mio padre. Dopotutto, papà era un uomo onesto e l'unica ingiustizia che aveva commesso era stata quella di pensarla diversamente dal regime. Questo, anche per zio, sembrava troppo poco per giustificare un omicidio, perché per descrivere l'impiccagione di mio padre il termine che lui utilizzò fu sempre omicidio.

In quei tragici giorni gli agganci politici di zio ci permisero pasti regolari o perlomeno una dieta decente, perché dal giorno dell'arresto di papà era lui a occuparsi di noi. Fu sempre da quel medesimo giorno che non lo vidi più indossare la divisa. Sembrava quasi un altro uomo, dato che gradualmente venne meno anche la sua indole aggressiva.

Per quanto ne so, non era un uomo cattivo, più semplicemente credeva veramente in certi ideali, ma non fino al punto di uccidere un innocente. Lui reputava che le masse non fossero altro che un gregge ignorante ed egoista incapace di autogovernarsi e quindi bisognose di un “buon” pastore, mentre mio padre era convinto nell'utopia della perfetta democrazia. Non so chi dei due avesse ragione, so solo che nelle loro menti un concetto finì per coincidere: che chi ci amministrava era tutto, fuorché un buon pastore.

Fisso la lettera che ho in mano e scaturisce una lacrima rammentando la tragica fine di papà.

Per alcune settimane a casa nostra regnò il silenzio. Quell'innaturale quiete che fu rotta solo dal sommesso brontolio degli aerei che iniziarono a sorvolare la città giorno e notte per bombardare i vari quartieri della capitale.

A seguito dell'esecuzione di molti rappresentanti dell'opposizione (tra i quali mio padre), la situazione s'era indubbiamente aggravata. Infatti, una coalizione di nazioni democratiche aveva dichiarato guerra al nostro Paese.

« Inchioderemo l'invasore sul bagnasciuga! » Aveva tuonato il Capo di Stato in un discorso, ma l'esercito che avrebbe dovuto far tremare il mondo, si squagliò come neve al sole davanti alla potenza degli eserciti nemici e non bastarono degli isolati atti d'eroismo a fermare i loro mezzi che tecnologicamente erano molto più avanzati dei nostri.

Visto che la prima linea difensiva era stata sbaragliata, la Patria chiamò al dovere delle armi anche i riformati (tra questi zio). Lo vidi tornare dopo qualche settimana decorato al valor militare ma orrendamente sfigurato in volto.

Invece di starsene a mollo nel bagnasciuga, la coalizione aveva oltrepassato in un sol balzo la pianura e valicato le montagne che circondavano la capitale.

Nonostante i roboanti proclami, stavamo perdendo quella che il Governo aveva battezzato come “la madre di tutte le battaglie” e i bombardamenti su obiettivi civili avevano fiaccato lo spirito guerriero della popolazione che ormai non si preoccupava di chi avrebbe vinto o chi avrebbe perso quel conflitto, purché carestia e incursioni finissero il prima possibile, dando così ragione alle teorie dello zio che asseriva che il popolo altro non era che un gregge codardo disposto a seguire il primo vincastro gli si parasse di fronte.

Nel volgere di pochi giorni la profezia da Cassandra di zio si concretizzò. Infatti, vista l'impossibilità di contrastare il nemico, i coscritti cominciarono a disertare o arrendersi in massa. A quel punto, poiché la disfatta pareva inevitabile, anche i militari di carriera scelsero di passare al nemico. Il primo a farlo fu il Capo di Stato Maggiore che firmò immediatamente l'armistizio, nominandosi al contempo comandante in capo dell'esercito di liberazione e leader del nuovo governo fantoccio messo su alla bene e meglio dalla coalizione di invasori.

Così, l'avversario era stato trasformato in alleato e in tutti i proclami quella che era stata definita una guerra di conquista da parte delle potenze straniere era diventata una lotta per l'emancipazione condotta con l'aiuto degli stati democratici. Incredibilmente non stavamo più perdendo la guerra ma la stavamo vincendo!

Ovviamente, il Presidente deposto non fu della medesima opinione e non ratificò l'atto in cui s'accettava la fine delle ostilità, proseguendo non solo l'impari lotta con il nemico ma dando anche inizio all'orrore della guerra civile.

Il parlamento e il governo su tutto ciò non dissero nulla, anche perché (come m'avevano insegnato a scuola) noi vi avevamo rinunciato. Prima al parlamento, dopotutto quell'assemblea sarebbe stata monocolore, quindi sempre allineata con la politica del Governo. Poi a un Governo, in fin dei conti i ministri ratificavano solo le decisioni del dittatore. Cosicché, ogni quattro anni tutto il popolo (da cui popolare) era chiamato a scegliere (da cui repubblica) tra un partito unico e il niente. Era poi lampante che il segretario a vita di quell'unico raggruppamento coincideva con il candidato alla presidenza. Insomma, nella nostra Repubblicana Popolare il concetto di democrazia consisteva nel poter andare a votare o nell'esimersi da questo diritto/dovere.

Ovviamente, era consigliabile votare scheda bianca o nulla piuttosto che non recarsi alle urne, poiché alla chiusura dei seggi c'era sempre qualcuno che controllava la lista degli aventi diritto e tutti coloro che non avevano votato dovevano poi comparire davanti al giudice per giustificare quale fosse il motivo di quella scelta.

Se la spiegazione non sembrava esaustiva ed esauriente, per loro c'era la condanna a una pena riabilitativa.

Il “buon pastore” non puniva i rei confessi ma li rieducava.

« Noi ci comporteremo con l'opposizione come farebbe ogni genitore con un figlio un po' discolo, » aveva una volta detto il Presidente.

« Rinchiudendoli in un campo di correzione a vita, » aveva aggiunto papà.

Era poi evidente che nel comunicare i dati delle varie elezioni l'unico elemento che veniva fornito era sempre e solo la percentuale dei voti a favore: il 100%.

Tornando alla guerra, quando il nemico di un tempo fu alle porte della capitale, il paese deflagrò in mille frammenti.

Ogni dialetto si elesse in etnia e la voglia di autodeterminazione divenne prima desiderio d'indipendenza e poi sfociò in un'insana anarchia.

Tornarono indipendenti i Sudditi e i Nordiani. Ricomparve l'antico conflitto tra i Tramontini e gli Albariani. Infine ogni capo villaggio dichiarò guerra ai paeselli confinanti, dando ragione alle ipotesi catastrofiche di zio.

Così al sangue che s'era sparso, s'aggiunse altro sangue. Tutti erano in lotta contro tutti.

Fu in un giorno che adesso viene festeggiato come la ricorrenza della liberazione che, mentre stavo andando verso la casa di nonna, intravidi zio che pendeva impiccato da un lampione.

Addosso portava la divisa che dal giorno della morte di papà aveva smesso d'indossare. Sul basamento del palo che reggeva il fanale c'era un foglio che riportava sotto forma di verdetto e accusa la sentenza di condanna: “questa è la fine che meritano i sostenitori del dittatore”.

Sono poi venuta a sapere che quell'uniforme gliela avevano fatta indossare a forza e che il processo sommario era stato condotto prendendo zio a calci, sputi e insulti.

A compiere quel misfatto erano stati tre militanti di quello che fino a poco prima era stato il principale partito d'opposizione al regime e le accuse di cui zio era stato chiamato a rispondere, erano solo delle illazioni infamanti.

La cosa assurda di quel tragico evento fu che i tre tizi che uccisero zio si dicevano amici di mio padre. Lui non avrebbe mai permesso che qualcuno assassinasse un altro essere umano. Lui (tutti lo sapevano) era contro la pena di morte.

Zio non era un uomo cattivo. Sono convinta che lui non avrebbe mai fatto male a una mosca. Inoltre, la morte di mio padre l'aveva sconvolto. L'unico suo sbaglio era stata l'ignavia, sempre che quella si potesse considerare una colpa.

Quell'essersi tolto fuori dalla lotta, non desiderando più parteggiare né per l'una né per l'altra fazione (come in molti avevano fatto), alla fine l'aveva condotto a un'ingiusta morte.

La radio e la televisione presto caddero nelle mani di liberati e le prime notizie che i sedicenti salvatori della Patria diedero rammento che annunciavano che il dittatore era in fuga e sorvolavano sul fatto che la città fosse preda dei sciacalli o che tutti i rappresentanti del vecchio regime erano divenuti vittime di vendette private.

Poveri uomini senza vere colpe, come impiegati statali, funzionari di polizia e via discorrendo, finirono impiccati ai lampioni, agli alberi e ai balconi. Cosicché un triste e macabro scenario accolse l'esercito della coalizione quando giunse in città.

Gli stranieri (insomma, quelli che prima erano invasori e poi liberatori) come primo atto della loro occupazione, ripristinarono un certo ordine: processando, condannando e giustiziando molti di coloro che s'erano improvvisati giudici nonché boia dei misfatti altrui.

Per due giorni la confusione fu totale e persino io una sera rimasi vittima di tutta quella violenza.

Furono due militari, due bravi ragazzi che provenivano da un paese lontano, a salvarmi dal rischio d'essere lapidata per la sola colpa d'essere la nipote di un gerarca. Poco importava chi fosse stato in vita mio padre e per quale alto motivo egli fosse morto.

Quei due bravi soldati sparando in aria riuscirono a disperdere la pazza folla che voleva linciarmi. Poi si presero cura di me, ripulendomi le ferite e curandomi le lacerazioni provocate dai sassi. Infine mi ricondussero a casa, dandomi in dono una barra di cioccolata, lì avevano ricevuto il grazie di mia madre nella loro lingua, che all'epoca io né parlavano, né comprendevo.

Quel giorno scoprii che l'odio si nutre di sciocchezze, perché quei due bravi ragazzi non riuscirono nemmeno a fare dieci passi una volta usciti da casa nostra. Qualcuno, che fino a poco prima li aveva acclamati, inneggiando a loro come i liberatori, per il solo causa d'avergli impedito d'ammazzarmi, gli sparò vilmente alla schiena.

Avevo tre anni quando ebbe inizio la dittatura. Ne avevo dodici quando avevo visto mio padre tramare con altri dell'opposizione in casa nostra. Quando assistetti a questi fatti ne avevo quattordici, solo due in più, ma quei due anni che mi portarono dall'infanzia all'adolescenza mi parvero un'eternità.

A quella età la natura tende a farci un brutto dispetto, quello di mantenerci bambine nel ragionamento dandoci però un corpo da donna.

Così, senza pensare alle possibili conseguenze, un giorno sorrisi a un soldato che portava la medesima divisa dei due bravi ragazzi a cui dovevo la mia vita. Ora, quel bastardo (altri epiteti non trovo) pensò che con quel gesto io volessi adescarlo e che lui, in qualità d'esercito occupante, potesse abusare di me come e quanto gli pareva.

Di quel giorno, di quei momenti, conservo solo dei brutti ricordi che non riesco a legare tra loro in un racconto. Fatti di cui ancor oggi preferisco non parlare. Cose che, piuttosto, vorrei non dover rammentare.

So solo che nei due anni che mi portarono dalla fanciullezza all'età adulta il concetto di “bene” e di “male” erano talmente confusi da farsi indistinguibili tra loro.

So che mi sentivo stupidamente colpevole per aver sorriso e che quando tornai a casa (per pudore o per vergogna) non dissi niente a mamma. Eppure lei capì lo stesso, facendomi intuire che quella mia triste esperienza un tempo era stata anche la sua.

Mi abbracciò e, mentre mi ripuliva, piangeva maledicendo tutti e tutto persino e soprattutto mio padre. Eppure papà in quello che m'era accaduto non c'entrava affatto, lui era un bravo uomo che viveva credendo in grandi ideali quali la giustizia, la libertà e la fratellanza.

Poi, per alcuni giorni, ci furono sguardi e silenzio, perché per l'educazione che ci veniva impartita questa era l'unica arma di difesa di cui le donne erano dotate di fronte alla violenza degli uomini.

« Impara l'arte della sopportazione, bambina mia, perché di tutte le doti richieste a una donna, questa è la prima, » mi ripeteva a tal proposito la nonna.

Il giorno in cui ricominciai a trovare il coraggio di parlare, coincise con quello della cattura del dittatore. Era stato sorpreso mentre, camuffato da profugo, tentava d'espatriare. Seduta stante e senza un giusto processo fu freddato da un mio coetaneo.

Nemmeno ventiquattro ore più tardi le sue spoglie, insieme a quelle dei pochi che gli erano rimasti fedeli, furono oggetto di atti di scempio nella piazza principale della capitale. Ironia della sorte, i loro corpi furono appesi utilizzando le braccia spalancate della grande statua che riproduceva il Presidente come un padre benevolo che accoglie a sé, come fosse un figlio, il popolo.

Quel giorno la piazza era gremita da una folla che inveiva contro il dittatore, la stessa che lo aveva celebrato il giorno in cui aveva tenuto il suo ultimo discorso pubblico. Quello in cui aveva annunciato che lo straniero era ormai alle porte della capitale, ma che l'orgoglio della Nazione avrebbe dimostrato agli occupanti che erano ancora in grado di cacciarli a calci nel sedere.

« Scateneremo l'infermo. Pagheranno caro questo affronto! Dovranno conquistare la città casa per casa. Piangeranno i loro morti a decine, migliaia, milioni! Per Dio e la nostra amata Patria combattete! »

Queste erano state le sue ultime parole ma adesso i calci nel sedere li stava prendendo proprio lui.

Fu il comandante in capo dell'esercito d'occupazione che fermò quel deprecabile rito.

Alcuni carri-armati si presentarono nella piazza per recuperare le salme ma furono accolti dal lancio di sassi e d'ordigni incendiari rudimentali.

I militari risposero sparando a salve. Poi, un razzo squarciò la fiancata di uno di quei mezzi. Vidi dei soldati in fiamme uscirne e gridare per qualche secondo prima di cadere esanimi a terra. Quindi ripresero i colpi di mitragliatore, seguiti da colpi di mortaio e cannone che levarono in aria un denso polverone.

Quel fumo dall'odore acre diradandosi rivelò uomini, donne, vecchi e ragazzini straziati.

Chiusi gli occhi per non dover assistere a quell'orrore, quindi fuggii verso casa.

Papà credeva nell'etica della guerra. Infatti affermava che, deposto un dittatore, fosse necessario processarlo con le sue stesse leggi e quindi condannarlo a morte, per poi graziarlo commutandogli la pena in ergastolo, al fine di segnalare che qualcosa era cambiato.

« Perché è necessario scordare il passato, per quanto doloroso possa essere, e guardare avanti. Mantenere unita la Nazione e evitare che ci si uccida tra fratelli. »

Questo era il suo pensiero per costruire un domani che fosse migliore dall'oggi in cui era vissuto, ma nel volgere di qualche mese al posto della pace ci fu la peggiore delle guerre: quella che ambisce solo alla conquista del potere. L'esercito liberatore, tornò a essere descritto come un'armata d'occupazione e una crudeltà priva di limite aggiunse alle cattiverie a cui fino ad allora avevo assistito altra cattiveria. Cosicché, incapaci di mantenere il controllo della situazione, coloro che dovevano insegnarci la democrazia abbattendo la dittatura, c'insegnarono alla perfezione in cosa consistesse un regime di tipo assoluto.

Fu solo allora che mia madre, stremata da tutto quanto c'era accaduto, smise di commiserarsi e, grazie alle amicizie di mio padre e di zio, trovò il modo per farci espatriare all'estero.

Andammo a vivere in uno di quegli stati democratici che non avevo capito bene se ci avevano invaso o liberato.

Crebbi con la loro cultura. Studiai nelle loro scuole. Compresi le ragioni di mio padre e quelle di mio zio. Apprezzai i valori etici di quei due bravi ragazzi che m'avevano salvato la vita e capii che non esiste un criminale peggiore di un delinquente che indossi la divisa di un esercito occupante.

Studiando e leggendo ho compreso che occorre rischiare di proprio per garantire a se stessi e agli altri i diritti fondamentali di ogni essere umano. Ho anche appreso che non si può apprezzare ciò che altri hanno (dandolo persino per scontato) se non lo si è conquistato con il sangue e il sudore.

Adesso che sono una donna, credo fermamente che chiunque abbia gambe, braccia, occhi e orecchie sia simile a me. Che soffra se viene offeso e che sanguini se viene ferito. Soprattutto credo che, qualunque sia la sua fede, abbia un'anima. Non so chi avesse ragione e chi avesse torto in quella guerra. Chi fosse il liberatore e chi il persecutore.

So che i partiti sono fatti di persone. So che gli eserciti sono fatti di persone. So che le nazioni sono fatte di persone. So che le persone, prese tutte insieme non sono né cattive né buone, ma so anche che alcune persone sono delle brave persone, mentre altre riescono a essere malvagie oltre ogni misura.

So che i due soldati bravi qui li hanno chiamati eroi, nonostante stessero facendo solamente il loro dovere. A dimostrazione che fare semplicemente il proprio dovere non è poi una cosa così scontata.

So pure che quello malvagio qui lo hanno definito, senza giri di parole, un delinquente.

Qui ho avuto la possibilità d'apprendere e amare i libri di cui mio padre era tanto innamorato e leggendo ho compreso che la storia la scrivono i vincitori, quelli di oggi, come quelli di ieri e che così sarà sempre. Ecco perché l'eroe di turno a volte è Bruto altre volte è Cesare. Ecco perché una nazione può nascere sterminando i nativi e sfruttando la schiavitù, per poi sedersi comoda sul proprio scanno di paese democratico e accusare gli altri stati di eccidio e di pulizia etnica. Ogni mezzo in fondo è lecito se c'è un fine.

Detto ciò, io non posso affermare né d'essere tra i vinti, né d'essere tra i vincitori. In fin dei conti, io non ero in guerra con nessuno. So solo che insieme a mia madre ho sofferto e pianto molto vedendo spargere il sangue dei vinti, quello di papà prima e quello di zio poi.

Tuttavia, so che “se riesci a mantenere la testa sulle spalle, mentre intorno a te tutti la perdono, allora tuo è il mondo”. Così terminava la poesia che mi recitò un giorno mio padre. Così finiscono tutte le vicende come la mia, cioè le storie di guerra, per questo non dovrebbero interessare i nomi dei protagonisti o i luoghi.